L’esperienza ci insegna che quando un elemento bidimensionale è appoggiato a un estremo e sottoposto a una forza di compressione all’altro estremo, oltre un determinato limite, manifesta la tendenza a flettersi. Questo fenomeno si verifica quando l’asse della sollecitazione non coincide esattamente con l’asse baricentrico dell’elemento, ma si trova a una certa distanza da esso, creando così un momento flettente.
Il modello matematico utilizzato per descrivere questo fenomeno considera l’eccentricità del carico assiale, che introduce un momento flettente, non parte delle forze primarie che agiscono sull’elemento.
Prendiamo ad esempio una riga da disegno. Se la si tiene in verticale, appoggiata con un’estremità su un tavolo (in modo tale che non scivoli) e si applica uno sforzo di compressione assiale sull’altra estremità, la riga, soggetta a compressione lungo il suo asse, resiste fino a un certo carico, definito “carico limite”. Oltre tale limite, inizia a incurvarsi lateralmente a causa dell’instabilità laterale. Se non si interrompe immediatamente la forza applicata, la riga si romperà.
Se volete testare questa resistenza ulteriormente, provate con righe di lunghezza diversa. Noterete che più la riga è lunga, più facilmente si romperà.

Applichiamo il modello matematico ai favi dell’alveare.
La cera prodotta dalle api ha caratteristiche meccaniche piuttosto scadenti, ma quando viene modellata per costruire il favo, riesce a resistere, grazie alla sua struttura alveolata e allo strato protettivo di propoli che avvolge le cellette, al peso delle provviste, della covata e delle forze trasmesse dagli agenti esterni.
Per comprendere come la struttura alveolata del favo riesca a sostenere il peso complessivo, dobbiamo analizzare come il carico si ripartisca sulle singole cellette (vedi disegno). Il peso complessivo del favo è dato dalla somma dei pesi di ciascuna celletta piena di miele, che si calcola moltiplicando il volume della celletta per il peso specifico del miele. Il peso di ciascuna celletta è applicato nel suo baricentro ed è diretto verso il basso, dove incontra un nodo comune a tre pareti di due celle adiacenti. Questo peso si scompone in due componenti lungo le pareti della celletta, che, essendo simmetriche, sono uguali.
Le reazioni “r/2” che si sviluppano nel nodo per l’equilibrio sono uguali e contrarie alle componenti del peso. Queste reazioni, agendo lungo le pareti, incontrano un altro nodo e si sommano con un’altra reazione proveniente dal nodo della celletta vicina. Le somme “R” di queste reazioni sono dirette verso l’alto lungo le pareti verticali delle cellette, e sono uguali e contrarie alla semisomma del peso di due cellette adiacenti.
Più ci avviciniamo al punto di attacco del portafavo, maggiore sarà la trazione nel favo, e la sua resistenza sarà inversamente proporzionale alla sua lunghezza e ai vincoli alle estremità.
Un esempio pratico. Quando diciamo che il favo pesa 5 kg, stiamo semplicemente affermando che la somma di tutte queste forze è equivalente a una forza di 5 kg.
Quando le api non riescono a mantenere la temperatura interna del nido sotto la temperatura di plasticità della cera, le cellette nella parte superiore del favo iniziano a deformarsi. Questo fenomeno è più accentuato nei favi che sono stati costruiti rapidamente e riempiti di miele prima di essere utilizzati per la covata. Al contrario, i favi che hanno contenuto covata si deformano meno, poiché le pareti sono rinforzate dai bozzoli della covata.
Se le api bloccassero il favo alle due estremità (sul longherone superiore e sulla traversa inferiore del telaino), durante lo stiramento delle cellette, il favo, non potendo scorrere nel suo piano longitudinale, resisterebbe fino a un determinato carico limite. Successivamente, la componente non assiale del carico inizierebbe a flettere impercettibilmente il favo. La situazione diventerebbe instabile, con deformazioni trasversali, creando delle protuberanze nella parte inferiore del favo, con il rischio di danneggiare le api o la regina durante l’estrazione dall’alveare. In altre parole, più lungo è il favo, più basso sarà il carico necessario per deformarlo. Questo fenomeno si verifica solo nel nido e non nel melario, anche se il favo è bloccato alle due estremità.
Se un’estremità del favo è libera, si verifica solo una deformazione longitudinale (stiramento delle cellette), senza generare il momento flettente addizionale che causerebbe la deformazione trasversale del favo.
Le api, apparse sulla Terra 25 milioni di anni fa, erano già a conoscenza di questo principio prima che l’uomo lo studiasse. Ecco perché le api iniziano a costruire i favi dall’alto, bloccandoli solo sotto la soffitta nei ricoveri naturali o sotto il longherone superiore dei telaini nelle arnie razionali. I favi costruiti dalle api non toccano mai il pavimento del ricovero naturale o le asticelle inferiori dei telaini, anche quando si aumenta lo spazio tra l’asticella inferiore e il fondo dell’alveare per migliorare la ventilazione.
In molte occasioni, ho sconsigliato agli apicoltori di montare il foglio cereo appoggiato sulla traversa inferiore del telaino per contrastare la varroa. Sebbene nella parte bassa del favo possano essere costruite celle da fuchi, il danno causato dalla varroa è significativamente inferiore rispetto al danno che provocano gli apicoltori quando favoriscono la costruzione di favi deformati.
Pasquale Angrisani.
Fonte: Apitalia 11/2018
Apicoltore Moderno
Leggendo l’articolo stiamo iniziando a capire che le api ci hanno dato anche qualche bella lezione di fisica. L’essere umano ha sottostimato l’intelligenza delle altre specie animali e anche degli insetti.
Ora capisco perché le api non costruiscono mai i favi fino a toccare il pavimento o le asticelle inferiori: se il favo fosse fissato alle estremità, la compressione interna potrebbe causare deformazioni trasversali. Le api fissano i favi solo nella parte superiore, evitando che il peso del miele e della covata li faccia flettere, prevenendo così instabilità e danni alla struttura. Un plauso all’autore di questa chiara spiegazione.