Nutrizione proteica.
L’ho già detto in apertura di capitolo: le api sono animali selvatici e, come tali, non dovrebbero essere alimentati. Questo vale per l’alimentazione zuccherina e, a maggior ragione, per quella proteica. Se durante la stagione ti trovi nella situazione per la quale dubiti che i tuoi alveari abbiano una carenza di polline ‒ e lo puoi valutare esaminando l’espansione della covata che dovrebbe esserci rispetto al momento della stagione e alle condizioni climatiche ‒ è perché hai fatto un qualche errore: hai apiari con un numero di alveari esagerato rispetto alle potenzialità del territorio circostante, o hai esasperato la selezione genetica per cui le tue colonie allevano troppa covata rispetto alle esigenze ambientali e quindi non sono in equilibrio con l’ambiente. Questo le fa consumare polline in maniera esagerata. Il polline a disposizione delle colonie può non essere sufficiente anche se hai i tuoi apiari collocati in zone dove regna la monocoltura. Infatti in tale tipo di situazione hai due tipi di problemi: le colonie trovano il polline solo quando la monocoltura è in fiore ma sono in carestia durante il resto della stagione; il polline può essere di scarsa qualità e, provenendo tutto da una sola fonte floreale, costituisce per le api una dieta incompleta. Un altro motivo potrebbe essere che alcune colonie (e quindi la mancanza non la osserverai su tutti gli alveari) sono infestate da varroa. In questo caso si spopolano mancando così le bottinatrici capaci di stoccare il polline nei favi. Si produrrà una carenza nell’ultima parte della stagione anche se il trattamento di contenimento della varroa avrà avuto successo.
Se è abbastanza semplice capire quando gli alveari hanno bisogno di essere alimentati con dello zucchero, molto più difficile è determinare con certezza quando hanno necessità di proteine. La loro mancanza, infatti, ha un ruolo decisivo sull’allevamento della covata e spesso non riusciamo a valutarlo con precisione. Come oramai avrai capito la covata è quella che tra tutti i componenti dell’alveare consuma più energia e lo fa in maniera esorbitante rispetto al resto degli individui che lo popola. Sono quindi le api nel loro stadio giovanile a soffrire maggiormente di una carenza proteica.
Spesso gli apicoltori credono in maniera dogmatica al benefici che si possono ottenere con l’alimentazione proteica, eppure la ricerca scientifica sembra oramai concorde sul fatto che i risultati di questo tipo di alimentazione, se fatto con sostituti del polline, sono scadenti sia dal punto di vista economico che sanitario. Intanto di solito questa aggiunta non è necessaria perché, quando è in atto una alimentazione zuccherina (anche naturale), le api bottinatrici vengono stimolate dalla colonia alla raccolta di polline. Quindi se il polline è presente nell’ambiente le api lo vanno a cercare.
Per quanto riguarda la salute delle api va sottolineato che l’alimentazione proteica è tra le tecniche apistiche oggetto di ricerca per valutare se la mancanza di proteine può avere un qualche legame con la sindrome dello spopolamento degli alveari, conosciuta anche come Colony Collapse Disorder. Gli ultimi studi eseguiti sono concordi nell’affermare che l’alimentazione artificiale con alimenti proteici può sì aiutare l’accrescimento della popolazione di api negli alveari alimentati in modo che siano più efficienti in primavera – ed è quindi posto alla fine dell’inverno il suo uso più proficuo – ma da sola non riesce a migliorare la salute e la sopravvivenza delle colonie anche se effettuata per periodi prolungati durante l’inverno. Alimentando gli alveari con i succedanei proteici più frequentemente utilizzati dagli apicoltori (derivati dalla soia, farina di orzo e uova) la percentuale di mortalità invernale degli alveari è del tutto simile a quelli non alimentati. Un qualche miglioramento si ottiene solamente se le api sono alimentate con polline fresco; meglio ancora se le api possono raccoglierlo in maniera naturale su fioriture precoci. Le colonie alimentate artificialmente rispetto a quelle che si procurano il polline in fioriture spontanee o coltivate ma di buona qualità proteica, hanno un livello di patogeni più alto ed hanno dimostrato anche una perdita maggiore di regine. Inoltre, il valore nutrizionale delle proteine naturali si è dimostrato maggiore dei succedanei e così anche la loro digeribilità.
Affermare che le proteine del polline sono superiori a tutte le altre sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda, eppure non è così, se molti apicoltori si affidano senza troppe remore all’alimentazione artificiale. Il semplicistico modo di ragionare di coloro che legano in maniera indissolubile il loro allevamento alla nutrizione risponde in maniera superficiale ad un fenomeno complesso che può procurare alle colonie allevate dei forti scompensi che, però, verranno imputati erroneamente a qualche malattia o avvenimento esterno, entrando in un perenne circolo vizioso.
Se l’apicoltore si trova nella condizione di dover nutrire costantemente gli alveari dovrà quindi rivedere il proprio modello di apicoltura. Alle aziende certificate bio non è permesso nutrire le proprie colonie con alimenti proteici, neppure il polline. Il legislatore ha evidentemente visto in tale tipo di alimentazione, seppure con un alimento del tutto naturale, un inaccettabile stimolo alla produzione di covata. Le aziende che si dovessero trovare in difficoltà intanto dovranno considerare di alimentare le api con alimenti il più possibile naturali. Quindi polline e, in mancanza, il lievito di birra che sembra essere quello più vicino in fatto di naturalità e affinità di composizione al polline dato che contiene una buona quantità di proteine (circa il 50%), una equilibrata serie di amminoacidi e un accettabile contenuto di grassi. Ma se il polline può essere somministrato in tutta tranquillità alle api (a parte le stesse precauzioni sanitarie che si devono avere con l’uso del miele, di cui abbiamo già detto nel paragrafo sull’integrazione delle scorte invernali), con il lievito non si può eccedere perché in forti dosi può diventare tossico e, comunque, il candito prodotto con una dose eccessiva di lievito sarà mangiato più lentamente dalle api o affatto. Il consiglio è, quindi, di non eccedere e di aggiungerlo al candito in dose del 5%.
Importante è anche sapere che la granulometria del cibo somministrato alle api deve essere inferiore a 500 micron e devono essere accuratamente evitati alimenti ricchi di grasso e di minerali che possono essere tossici per le api. Infatti, le farine di semi proteici, quando sono utilizzare per alimentare le api, devono essere sgrassate.
Il pane delle api.
Durante il lavoro di raccolta del nettare dai fiori, le api accumulano passivamente il polline sulla fitta peluria che ammanta il loro esoscheletro. Questo è necessario perché, di visita in visita, le piccole particelle di polline si trasferiranno sul pistillo del successivo fiore ispezionato, assicurando la sua fecondazione. Ma il polline non viene portato in alveare in questo modo perché ci sarebbero dei problemi di stoccaggio. Allora, durante il volo che le impegna per passare da un fiore all’altro o quello di ritorno in alveare, le api si cimentano in un funambolico recupero dei singoli granelli di polline dalla folta pelosità per edificare delle pallottoline. Il complesso lavoro inizia con il primo paio di zampe (quelle anteriori) dove, tra i vari elementi importanti per la pulizia di occhi e antenne, vi sono dei pettini composti di robuste setole che raccolgono il polline del capo. Le stesse robuste setole le hanno il secondo paio di zampe, quelle mediane, che prendono in consegna il polline dal primo paio di zampe e lo uniscono a quello spazzolato dal torace. Il terzo paio di zampe (quelle posteriori) sono decisive per la raccolta del polline e la formazione delle multicolori pallottoline che sicuramente avrai visto adornare le zampe posteriori di molte delle api intente a visitare i fiori. Pettinano l’addome e accolgono il polline raccolto dal secondo paio di zampe e lo trasferiscono, grazie all’auricola della tibia che ha funzioni di pinza, alle cestelle, che sono dei lunghi peli (uno per zampa) attorno ai quali le api costruiscono le due pallottole di polline che porteranno in alveare. Mentre costruisce le pallottoline, l’ape rigurgita del nettare con il quale impasta i vari componenti.
Una volta ritornata in alveare, l’ape deposita il polline, distaccato con l’aiuto del secondo paio di zampe, in una celletta del favo di solito tra quelle vicine alle cellette di covata poste più in alto, ovvero tra covata e miele. A questo punto l’ape si gira di 180° e infila la testa nella celletta che usa per pressare le pallottoline. A lei seguirà un’altra ape che lascerà il suo carico e poi altre ancora fino a riempire la cella per ¾ della sua capienza. Siccome le pallottoline di polline sono raccolte da più api che possono aver visitato fiori di diversa specie, il polline contenuto in una celletta potrebbe avere colori differenti. A questo punto le api di casa aggiungono un po’ di miele per sigillare il polline stivato.
All’interno delle cellette del favo nel polline così stoccato si moltiplicano una serie di batteri lattici, probabilmente aggiunti dalle api durante il rigurgito del nettare utilizzato per la formazione delle pallottoline. Questi batteri metabolizzano parte degli zuccheri nel polline, producendo acido lattico e abbassando il pH da 4,8 a circa 4,1. Il polline stoccato nei favi che ha subito la fermentazione lattica prende il nome di pane delle api. La fermentazione del polline da parte di batteri lattici è sicuramente in funzione della sua conservazione mentre è ancora dubbio che abbia anche il compito di migliorare la sua digeribilità.
Se hai intenzione di utilizzare il polline nell’alimentazione proteica delle tue colonie, puoi somministrarlo tal quale o aggiunto come componente del candito.Pag. 5 di 5
Marco Valentini
Fonte: bioapi
Bibliografia
- Alejandra Vásquez and Tobias C. Olofsson – The lactic acid bacteria involved in the production of bee pollen and bee bread. Journal of Apicultural Research 48(3):189-195 · July 2009
- Vanessa Corby-Harris, Patrick Maes and Kirk E Anderson – The Bacterial Communities Associated with Honey Bee (Apis mellifera) Foragers. PLoS ONE 9(4):e95056 · April 2014
Da tanto tempo non leggevo un qualcosa di cosi serio nel mondo delle api. Ringrazio Marco Valentini.