sabato , 7 Settembre 2024
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Fonte: Corriere delle Alpi

Come nutrire le api senza sensi di colpa. Pag. 1 di 5

L’ape è un animale selvatico e per questo suo status ogni tipo di alimentazione andrebbe evitato. È quello che mi sono sempre detto durante la mia lunga attività di apicoltore. Se vogliamo, allevare un animale selvatico ha proprio questo di bello, non dover pensare giornalmente ad accudire i propri capi, come fa qualunque buon allevatore di animali domestici. La sua vita è indipendente dalla convivenza con l’uomo e, per evitare che perda la sua preziosa condizione di animale selvatico, l’apicoltore deve evitare di controllare le sue condizioni di riproduzione e (appunto) di alimentazione (https://it.wikipedia.org/wiki/Domesticazione). Di questa bellezza gode anche il consumatore che mai acquisterebbe un miele di cui dubiti la composizione. Ed infatti proprio per tutelarlo il legislatore, quando ha pensato alla definizione legale di miele, ha voluto specificare che in esso non si deve trovare alcun elemento che non derivi direttamente dalla raccolta, da parte delle api, di nettare o melata. L’alimentazione forzata potrebbe, se non effettuata correttamente, cambiare la composizione del miele (ma anche degli altri prodotti delle api) con il rischio di essere multati e addirittura denunciati in via penale per la sua adulterazione.

In virtù di questa consapevolezza nella nostra azienda, tra le tecniche di allevamento utilizzate, l’alimentazione ha sempre occupato una parte molto marginale. Per molti anni l’unica pratica usata è stata il “pareggiamento delle scorte” ovvero il trasferimento di favi di miele tra un alveare carico di provviste ed uno povero. Il vantaggio per noi era duplice. L’alveare povero sopravviveva senza necessità di acquistare alimenti artificiali e quello ricco si trovava non più intasato di miele e alla ripresa primaverile la regina aveva più spazio per covare. Questo permette di posticipare il periodo della sciamatura ed avere alveari più ricolmi di api. Per ovviare ad alcuni problemi di diffusione delle malattie, nel dubbio che lo spostamento dei favi comportasse anche un trasferimento di microrganismi patogeni, questo metodo è stato da noi poi abbandonato. Meglio acquistare qualche chilo di candito, ci siamo detti, piuttosto che rischiare di trovarci a fronteggiare in piena stagione una epidemia capace di mettere a rischio l’intera produzione.

Per questo motivo la nostra esperienza sull’alimentazione delle api è stata a lungo ristretta ai minimi termini. Essa si basava soprattutto sul constatare gli errori che in questo campo facevano i nostri colleghi, soprattutto quelli meno esperti. È pratica comune, infatti, procedere all’alimentazione delle api verso la fine dell’inverno senza alcuna valutazione delle scorte, oppure provare a stimolare la ripresa primaverile sempre attraverso un’alimentazione forzata con sciroppo di acqua e zucchero a prescindere dalle reali necessità degli alveari. Risultato: i costi lievitano e gli alveari si trovano spesso troppo presto nella condizione di voler sciamare. E sul versante produttivo? Nessuna differenza.

L’aver constatato che le più recenti ricerche scientifiche tendono a dimostrare che l’apparato immunitario delle api, per nulla simile a quello dei mammiferi, deve la sua efficienza agli elementi che si trovano nel cibo e in particolare nel polline non ha fatto altro che rafforzare le nostre convinzioni.

Le cose sono radicalmente cambiate durante la lunga siccità del 2017 e ancor di più nel corso della pessima primavera del 2019. Ci siamo trovati disarmati a far fronte a degli eventi che nella nostra lunga esperienza non avevamo mai dovuto contrastare. Il cambiamento climatico è una realtà palpabile, con la quale purtroppo dovremo sempre più fare i conti. È stato difficile, ma ne siamo comunque usciti fuori brillantemente e contemporaneamente abbiamo ottenuto una importante esperienza. Ma andiamo per gradi.

Abbiamo già affermato che le api sono animali selvatici e, come tali, non dovrebbero essere alimentati. Se durante la stagione ti trovi nella situazione per la quale gli alveari rischiano di morire di fame è perché hai fatto qualche errore: puoi aver esagerato sull’industrializzazione della tua azienda apistica e collocato una quantità di alveari per apiario eccessiva; oppure puoi aver raccolto troppo miele e lasciato poche scorte; puoi aver esasperato la selezione genetica utilizzando ibridi o sottospecie non autoctone e quindi non in equilibrio con l’ambiente circostante; puoi aver collocato gli apiari in zone dove regna la monocoltura; puoi aver preparato dei nuovi nuclei poco equilibrati; oppure puoi aver eseguito in ritardo il trattamento di contenimento della varroa per cui le colonie, debilitate, non sono riuscite a fare le scorte malgrado avessero tutto intorno delle abbondanti fioriture. Certamente è impossibile essere apicoltore senza fare errori, ma se nella gestione della tua attività ti trovi troppo spesso a dover fare i conti con la nutrizione degli alveari, che diventa generalizzata e frequente, allora, dopo aver alimentato le tue colonie per non farle morire, devi anche interrogarti sui motivi che ti portano a non poter fare a meno della nutrizione. In seguito devi lavorare per cambiare il tuo metodo di allevare le api. Ma intanto proviamo a chiarire gli elementi fondamentali della discussione.

Esistono tre motivi per i quali puoi trovarti nella necessità di nutrire i tuoi alveari:

1) Sei verso la fine della stagione produttiva e ti accorgi che essi hanno poche scorte per superare l’inverno. Hai due possibilità: accrescere le scorte nel nido oppure, come io preferisco, attraverso la nutrizione permettere il mantenimento delle poche scorte fino all’arrivo del periodo primaverile e dei primi raccolti che si spera saranno sufficienti alla ripresa delle colonie.

2) La stagione produttiva è nel suo pieno (può capitare spesso nella prima primavera ma a volte anche in estate se si verifica una forte siccità) e, a causa di eventi climatici particolarmente avversi, le scorte sono finite e l’eventualità che gli alveari muoiano di fame è molto alta. Devi intervenire urgentemente con l’alimentazione di emergenza o di soccorso. Questa è anche l’alimentazione che è necessario praticare se vuoi introdurre un pacco d’api in un’arnia.

3) Manca circa una quarantina di giorni dalla fioritura principale e, fatti i calcoli, se la stagione non ti aiuterà con copiose fioriture che stimolano la regina a produrre sufficiente covata, i tuoi alveari non arriveranno con la dovuta forza al raccolto. Puoi mettere in atto la nutrizione stimolante, sempre e solo se la tua azienda non aderisce al disciplinare che regolamenta l’apicoltura biologica, che espressamente lo vieta.

Impara a valutare le scorte invernali.

Tradurre in una regola di validità universale la quantità di miele che gli alveari devono avere nel nido come scorte invernali purtroppo non è possibile. Essa infatti varia a seconda della zona climatica nella quale ti trovi ad operare, inoltre ogni inverno è diverso e quindi le necessità variano di anno in anno. In realtà sarebbe più giusto dire che ogni primavera è diversa, visto che senza covata gli alveari consumano poco più di un chilo al mese. E, allora, la vera differenza la fa l’andamento climatico durante la ripresa delle colonie all’uscita dall’inverno. Tuttavia, possiamo teorizzare che una media di 20 kg di miele di scorta in un alveare Dadant da 10 favi può, di norma, essere sufficiente alle colonie per arrivare alla primavera successiva. Qualche chilo in meno se si opera in climi mitigati dal mare o in più se sei in montagna.

Prima di decidere come comportarti con la nutrizione è importante sapere che le scorte di miele non sono solo una utile fonte di sostentamento della colonia durante il suo periodo di inattività forzata. Sono anche di fondamentale aiuto alla colonia per riuscire a mantenere costante la temperatura e, quindi, consumare poche scorte durante la stagione fredda. Più scorte uguale meno consumo!

In inverno le api, come abbiamo detto, consumano pochissimo miele. Intanto perché durante il blocco naturale della covata autunno/invernale devono mantenere il calore del glomere ad una temperatura molto più bassa dei 35°C necessari ad allevare correttamente la covata. È quindi tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera che i consumi crescono vertiginosamente, di pari passo con l’aumento del numero di celle di covata allevate dalle colonie. All’interno del nido, poi, l’essere circondati da scorte di miele migliora la coibentazione perché il miele è un cattivo conduttore di calore: una volta scaldata la porzione di favo dove staziona il glomere, il calore non viene disperso se non leggermente, attraverso il favo. E questo fa diminuire i consumi durante la cattiva stagione.

Prima di nutrire gli alveari per integrare le scorte, è estremamente importante visitarli per poter giudicare se questo intervento sia davvero necessario. Sapendo che in ogni telaino pieno di scorte della misura Dadant contiene circa 3,5 kg di miele, per conoscere quanto miele c’è in un alveare basta sommare il contenuto di miele – a spanne – di tutti i favi.

Non si tratta solo di fare economia sulla nutrizione: gestire bene questa tecnica apistica significa eliminare alcuni inconvenienti che potrebbero verificarsi nella successiva primavera. Eccessive scorte ancora presenti nei favi in questa stagione ritardano infatti la ripresa della famiglia, perché la regina non ha sufficienti cellette a disposizione per deporre le uova. Ciò determina inoltre un precoce squilibrio tra quantità di covata e di api, che porta a sicura sciamatura.

Un’ultima informazione utile per valutare se le scorte sono sufficienti: malgrado appaia ovvio, una colonia forte consuma più di una colonia debole, ma il consumo non sarà mai proporzionale alla forza. Se lo valutiamo in proporzione alla dimensione, una colonia piccola consumerà di più di una forte: questo perché un glomere piccolo è meno efficiente nel mantenere il calore di uno grande. Va da sé, quindi, che una colonia piccola si stresserà più di una colonia forte e questo sarà evidente alla ripresa primaverile.

È poi fondamentale sapere che le colonie difficilmente muoiono di freddo, devono essere davvero molto piccole per non riuscire a scaldare la regina. Possono, invece, facilmente morire di fame seppure contornate da abbondanti scorte. Ciò capita quando le temperature fredde si protraggono per molti giorni. Il glomere di colonie piccole fa fatica a spostarsi tra i favi per raggiungere le scorte che ha magari solo a qualche centimetro di distanza. Una volta che il glomere ha consumato tutte le scorte che ha nelle cellette che copre, le api che lo compongono muoiono di fame. Lo si nota perché molte di esse le troverai esanimi, infilate nelle cellette con l’addome verso l’esterno, morte nell’ultima disperata ricerca dell’improbabile milligrammo di miele. Continua alla pag.2 di 5

Marco Valentini
Fonte: bioapi

Bibliografia

  • Alejandra Vásquez and Tobias C. Olofsson – The lactic acid bacteria involved in the production of bee pollen and bee bread. Journal of Apicultural Research 48(3):189-195 · July 2009
  • Vanessa Corby-Harris, Patrick Maes and Kirk E Anderson – The Bacterial Communities Associated with Honey Bee (Apis mellifera) Foragers. PLoS ONE 9(4):e95056 · April 2014
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Info Redazione

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