La vicenda sottoposta al vaglio della giurisprudenza di legittimità offre lo spunto alla S.C. per ribadire la natura oggettiva della responsabilità per fatto dell’animale (in senso conforme, v. Cass., 19 marzo 2007, n. 6454, Foro it., Rep. 2006, voce Responsabilità civile, n. 515, per esteso in Resp. civ., 2008, 608, con nota di GLIATTA; 26 luglio 2005, n. 15613, id., Rep. 2005, voce cit., n. 462; 29 ottobre 2003, n. 16226; id., Rep. 2004, voce cit., n. 214, per esteso in Danno e resp., 2004, 612, con osservazioni di BENEDETTI; 9 gennaio 2002, n. 200, id., Rep. 2002, voce cit. n. 318; 30 marzo 2001, n. 4742, id., Rep. 2001, voce cit. n. 372, per esteso in Arch civ., 2001, 977; 14 settembre 2000, n. 12161, Foro it., Rep. 2000, voce cit., 345; 4 dicembre 1998, n. 12307, Foro it., 1999, I, 1938, con nota di Di Paola).
Afferma la Corte, infatti, che alla base della responsabilità ex art. 2052 c.c. non vi è la condotta del proprietario o utilizzatore dell’animale, ma il rapporto che lega quest’ultimo al proprietario/utilizzatore. Ovvero l’indagine che dovrà svolgere il giudice sarà inerente alla modalità di causazione del danno: se quest’ultimo è riconducibile eziologicamente all’animale, ne consegue la responsabilità del proprietario/utilizzatore (a prescindere dalla sua condotta); se, al contrario, il danno è riconducibile ad un elemento esterno (caso fortuito) anziché all’animale, allora il proprietario/utilizzatore sarà esente da responsabilità. Per i sostenitori della tesi obiettiva, la proprietà/uso dell’animale non implica uno specifico obbligo di custodire o di vigilare e, quindi, al fine dell’accertamento della responsabilità non rileva la violazione di detto obbligo (in dottrina, in tal senso, FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario del Codice Civile, diretto da SCIALOJA-BRANCA, Bologna, 1993, 604, che ripropone tesi già sostenute da RODOTA’, Il problema della responsabilità oggettiva, Milano, 1964, 127 e TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 190).
Invero, nel caso di specie, il proprietario di una tranquilla villa in campagna (immersa, si presume, in un’oasi di macchia mediterranea), infastidito dalle continue incursioni di uno sciame di 40.000 api, cita in giudizio l’apicoltore – proprietario del fondo confinante che ospitava gli operosi insetti – per vederlo condannare al risarcimento dei danni arrecati dalle continue incursioni delle api, che – considerate le esigue dimensioni del fondo che le ospitava – dopo aver abbandonato le arnie loro destinate, si recavano, per bottinare, nel fondo del ricorrente imbrattando di propoli la tranquilla dimora.
La S.C., nell’accogliere il ricorso: a) riconosce il nesso tra proprietà degli animali e danno; b) esclude la selvaticità dell’animale, dacchè l’apicoltore, ne trae un beneficio economico dal loro utilizzo (in linea con Cass. civ., 7 luglio 2010, n. 16023, Foro it., 2011, I, 1473; 17 ottobre 2002, n. 14743, Foro it., 2003, I, 1175); c) condanna l’apicoltore al risarcimento dei danni arrecati dallo sciame di api al fondo vicino. In senso contrario ( v. Cass., 19 giugno 2008, n. 16637, Foro it., Rep. 2008, voce cit., n. 407; 15 luglio 2008, n. 19449, ibid., n. 408; 2 ottobre 1998, n. 9794, id., Rep. 1998, voce cit., n. 31; App. Torino, 30 maggio 1987, ibid., n. 168, per esteso in Dir. e pratica assic., 1987, 876, con nota di POLOTTI DI ZUMAGLIA; Cass., 23 febbraio 1983, n. 1400, Foro it., Rep 1984, voce cit., n. 122, per esteso in Resp. civ., 1983, 632), i sostenitori della tesi soggettiva inquadrano le ipotesi di responsabilità ex art. 2052 c.c. nell’ambito delle fattispecie a colpa presunta, fornendo per conseguenza una lettura diversa anche della prova contraria: il proprietario dell’animale deve provare che l’evento si è verificato pur avendo usato il grado di diligenza richiesto dal caso concreto (in dottrina, v. CANDIAN, Caso fortuito e forza maggiore, voce del Noviss. Dig. It., vol. II, Torino, 1957, 990, che riprende le tesi di BARASSI , Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1946, vol. III, 1022).
Errore nella presentazione del ricorso, due errori gravi e uno lieve:
1 la difesa asserisce che il motivo dello sporco di propoli sia dovuta alla posizione della casa all’interno della macchia mediterranea, facendo intendere ai giudici “non competenti” che le api avrebbero potuto sporcare la casa con propoli. mentre avrebbe dovuto, suppongo, precisare che le api, una volta raccolta la propoli non vanno in giro a cercare il nettare come descrive la sentenza sporcando quindi si propoli la casa, ma una volta raccolto la propoli ritornano immediatamente all’alveare a depositarla.
2 I Giudici hanno inteso nella descrizione del ricorso, così come si legge nella sentenza “insufficiente il terreno di proprietà per alimentare tutte le 10 dieci casette e un nucleo” perdendo di vista che non esiste quantità di terreno sufficiente ad alimentare un alveare ma l’alimentazione è in funzione della produttività nettarifera del terreno spingendo le api fino a 3 km il raggio di azione.
3 Era necessario richiamare alcune sentenze in riferimento alla semi selvaticità dei gatti, quali animali non controllabili proprio a causa della loro condizione, tra l’altro, a differenza del cane ne è vietata la costrizione.
Suppongo con queste attenzioni la sentenza forse poteva avere un altro risultato.
Dopo questo vi consiglio, per autocitarmi, la lettura del mio libro “Apicoltura in Sicurezza” edito da Montaonda Editore con presentazione di dott. Franco Mutinelli direttore dell’ Istituto Zoprofilattico delle Venezie. Buona lettura.
L’errore evidente che ha commesso il giudice è stato quello di assegnare la consulenza tecnica di ufficio a un tecnico non esperto in campo apistico.
Di conseguenza anche il consulente tecnico di parte del convenuto non essendo un esperto apistico non ha saputo contestare la relazione tecnica d’ufficio sui seguenti punti:
a) Le api raccolgono la propoli nelle ore più calde della giornata, quando è più malleabile, e la trasportano nelle cestelle del polline delle zampe posteriori ma, mai in letteratura si è scritto o letto che le api perdono un quantitativo enorme di pallottoline di propoli da sporcare tutta la zona circostante l’apiario.
b) La sostanza scura, che sporca le terrazze, gli spazi esterni, e l’immobile, non è la propoli rilasciata dalle api nella loro attività di bottinatrice ma bensì, deiezioni rilasciate durante il normale volo di purificazione, che si manifesta in inverno o in primavera o quando le api hanno la diarrea per alcuni giorni. In questo caso, le deiezioni sono più accentuate, a causa della prolungata dimora all’interno dell’alveare e dell’impossibilità di uscire per liberarsi delle feci.
c) Che il terreno dove sono posizionati gli alveari è insufficiente a soddisfare tutte le loro esigenze, dimenticandosi che le api nella loro attività di bottinatura, non conoscono i confini di una proprietà, raccolgono il nettare, la melata, il polline e il propoli, risorse di un ciclo naturale di interesse pubblico su una superficie di circa 28 Km2.
I dubbi sono:
= nel raggio di 3km non c’era alcun apicoltore oltre al condannato?
= api selvatiche neppure? È una zona così degradata?
Cosa non evidenziata ma sicuramente da verificare: come fare a dimostrare che le api che hanno “causato” il danno sono state quelle dell’apicoltore condannato o altre api nel raggio di 3km incluse api selvatiche?