6.2. Impostata in termini di responsabilità oggettiva è irrilevante ogni questione in merito alla pretesa mancanza di culpa in vigilando o in custodendo del convenuto o di altra forma di colpa.
6.3. Quanto alla censura secondo cui la consulenza non costituisce mezzo di prova, va osservato che la consulenza tecnica, anche se non costituisce, in linea di massima, mezzo di prova, ma strumento per la valutazione della prova acquisita, tuttavia rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (Cass. n. 15630/2000; 1020 del 19/01/2006).
Tanto si è appunto verificato nella fattispecie, in quanto la sentenza impugnata da atto che solo un tecnico poteva indicare al giudice la natura della sostanza imbrattante la proprietà dell’attrice, il tipo di insetti che la produce, il tipo di apicoltura praticato dal convenuto e l’eccesivo numero di api possedute in relazione al terreno posseduto.
Ne consegue che è infondata la censura mossa dal ricorrente in merito alla circostanza che il giudice di merito abbia ricostruito i fatti di causa sulla base della consulenza tecnica.
6.4. Infondata è anche la censura di inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 2052 c.c., vertendosi in ipotesi di animali selvatici.
E’ vero che in linea di principio (Cass. n. 27673 del 21/11/2008;
Cass. 10008 del 24/06/2003) il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 cod. civ., inapplicabile alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 cod. civ., e tanto anche in tema di onere della prova con la conseguente necessaria individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (cui generalmente fa capo la responsabilità dei danni da animale selvatico).
Sennonchè nella fattispecie le api, come correttamente rilevato dal giudice di merito (cui tale accertamento di fatto compete) non sono “animali selvatici”, tenuto conto che essi sono pienamente gestite dall’apicoltore, che attraverso il loro “utilizzo” svolge un’attività economicamente rilevante.
7. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza ex art. 360 c.c., n. 5.
Il ricorrente si limita a dire: “le considerazioni che precedono rendono evidente l’illegittimità della sentenza impugnata anche in ordine alla sussistenza ed alla quantificazione del preteso danno apoditticamente ed immotivatamente affermato e liquidato dai giudici di appello nella sentenza che con il presente atto si impugna”.
Quindi il motivo si conclude con il presente quesito: ” dica la S.C. che ai fini della condanna risarcitoria e della quantificazione del danno ai sensi dell’art. 2052 c.c., deve essere accertato sia il danno sia la responsabilità”.
8. Il motivo è inammissibile sia per genericità sia per violazione dell’art. 366 bis c.p.c.
Va, infatti, osservato che il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 4 (Cass. n. 359 del 11/01/2005).
Errore nella presentazione del ricorso, due errori gravi e uno lieve:
1 la difesa asserisce che il motivo dello sporco di propoli sia dovuta alla posizione della casa all’interno della macchia mediterranea, facendo intendere ai giudici “non competenti” che le api avrebbero potuto sporcare la casa con propoli. mentre avrebbe dovuto, suppongo, precisare che le api, una volta raccolta la propoli non vanno in giro a cercare il nettare come descrive la sentenza sporcando quindi si propoli la casa, ma una volta raccolto la propoli ritornano immediatamente all’alveare a depositarla.
2 I Giudici hanno inteso nella descrizione del ricorso, così come si legge nella sentenza “insufficiente il terreno di proprietà per alimentare tutte le 10 dieci casette e un nucleo” perdendo di vista che non esiste quantità di terreno sufficiente ad alimentare un alveare ma l’alimentazione è in funzione della produttività nettarifera del terreno spingendo le api fino a 3 km il raggio di azione.
3 Era necessario richiamare alcune sentenze in riferimento alla semi selvaticità dei gatti, quali animali non controllabili proprio a causa della loro condizione, tra l’altro, a differenza del cane ne è vietata la costrizione.
Suppongo con queste attenzioni la sentenza forse poteva avere un altro risultato.
Dopo questo vi consiglio, per autocitarmi, la lettura del mio libro “Apicoltura in Sicurezza” edito da Montaonda Editore con presentazione di dott. Franco Mutinelli direttore dell’ Istituto Zoprofilattico delle Venezie. Buona lettura.
L’errore evidente che ha commesso il giudice è stato quello di assegnare la consulenza tecnica di ufficio a un tecnico non esperto in campo apistico.
Di conseguenza anche il consulente tecnico di parte del convenuto non essendo un esperto apistico non ha saputo contestare la relazione tecnica d’ufficio sui seguenti punti:
a) Le api raccolgono la propoli nelle ore più calde della giornata, quando è più malleabile, e la trasportano nelle cestelle del polline delle zampe posteriori ma, mai in letteratura si è scritto o letto che le api perdono un quantitativo enorme di pallottoline di propoli da sporcare tutta la zona circostante l’apiario.
b) La sostanza scura, che sporca le terrazze, gli spazi esterni, e l’immobile, non è la propoli rilasciata dalle api nella loro attività di bottinatrice ma bensì, deiezioni rilasciate durante il normale volo di purificazione, che si manifesta in inverno o in primavera o quando le api hanno la diarrea per alcuni giorni. In questo caso, le deiezioni sono più accentuate, a causa della prolungata dimora all’interno dell’alveare e dell’impossibilità di uscire per liberarsi delle feci.
c) Che il terreno dove sono posizionati gli alveari è insufficiente a soddisfare tutte le loro esigenze, dimenticandosi che le api nella loro attività di bottinatura, non conoscono i confini di una proprietà, raccolgono il nettare, la melata, il polline e il propoli, risorse di un ciclo naturale di interesse pubblico su una superficie di circa 28 Km2.
I dubbi sono:
= nel raggio di 3km non c’era alcun apicoltore oltre al condannato?
= api selvatiche neppure? È una zona così degradata?
Cosa non evidenziata ma sicuramente da verificare: come fare a dimostrare che le api che hanno “causato” il danno sono state quelle dell’apicoltore condannato o altre api nel raggio di 3km incluse api selvatiche?